MARIA DI CASTELLO
LA CUSTODE DI UN SOGNO
(Giada Gariglio)
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Foto per gentile concessione Gino Tumbarello
Quella mattina di fine inverno mi destai improvvisamente, quasi come se quei timidi raggi del sole ancora sopito tra i veli diradati della notte passata, impigliati tra i vetri lucidi della finestra, mi avessero sussurrato dolcemente all’orecchio, svelandomi che quel giorno si sarebbe spalancata una finestra in più sulla mia esistenza, capace di spingere il mio sguardo ancora più oltre.
L’emozione permeava tutto ciò che mi circondava e senza esitare corsi al tavolo della colazione, con la mente già nutrita dal desiderio di scoprire e sognare.
I biscotti fragranti e il mio abituale tè dolcemente ambrato mi fecero davvero sentire pronta per l’esperienza che mi avrebbe atteso a poche ore di distanza.
Simile a un astro in corsa nel cielo indossai uno dei miei completi preferiti e imbracciai la mia fotocamera, fedele compagna di vita in qualsiasi luogo nel quale potessi cogliere un istante ed immobilizzarlo, come un eterno cristallo.
Salutai tutti con la voce colorata da note infinitamente allegre e uscii diretta alla scuola del mio paese, Andora, dove avrei incontrato alcune delle mie insegnanti insieme alla gioia di altri giovani cuori, quelli di coloro che insieme a me erano in cammino sulla strada delle scuole medie.
Eravamo pronti, tutto fremeva e il vociare indistinto, con risa e concitate parole, pareva quasi una melodia che rendeva il sole appena nato nel cielo ancora più vivo.
In pochi attimi ci trovammo a muovere i primi passi verso lo sguardo del castello.
Trascorso un po’ di tempo, dinanzi a noi si presentò un sentiero puntellato dai primi coraggiosi fiori di febbraio, che allungavano il verdeggiante collo facendosi strada tra le fitte trame rigogliose.
Fu così che seguendo la loro strategia, attraversammo quell’insolita via primaverile.
Ecco! Il piccolo borgo ci accolse con un ingresso che ci sembrò quasi una porta verso un mondo celato da ciò che viviamo ogni giorno, lontano dalla modernità talvolta superficiale nel quale giovani come noi si rinchiudevano, per guidarci in un nido di segreti riservati a pochi, che forse sarebbe stato capace di aprire i nostri occhi, talvolta ciechi davanti alla meraviglia del quotidiano.
Molti di noi si riempirono il cuore e i polmoni di quella brezza lieve, delicata, che ci accarezzava il viso portandoci il profumo del nostro mare, culla di pescatori che lontano ci sorrideva e il profumo del candore del ciliegio che ci attendeva al castello. Ci sentimmo rinascere.
La magia di quel luogo accompagnava il nostro sguardo meravigliato, che osservava la chiesa stagliarsi verso il cielo limpido e la torre con pietre che raccontavano storie di antichi pensieri.
Poi ancora osservammo l’affresco nascosto eroso dalla voce del vento e dal reo tempo, avvolto però da un’aura di mistero che esercitava su di noi incredibile fascino, permettendoci di farci udire i mormorii delle foglie fruscianti che si mutavano in quelle di uomini e donne di secoli lontani, che in quell’attimo sembravano così vicini.
Fu in quegli istanti che avemmo la fortuna di conoscere la signora Maria, che giungendo con la chiave preziosa ed imponente, ci fece strada, superando le porte legnose che ci accolsero dolcemente; eravamo in parte intimoriti dalle colonne severe, ma al tempo stesso ci sentivamo al sicuro dal mondo esterno.
Ci osservava uno per uno, stipati tra le mura parlanti dell’edificio: i suoi piccoli occhi bruni scorrevano rapidi e sembravano racchiudere cieli brillanti, colmi di conoscenza.
I disegni del tempo le attraversavano le guance, la fronte, le mani, mentre i capelli d’argento si affollavano in ciuffi ridenti sul capo.
Quella mattina portava una maglia impreziosita da stampe fiorite e uno scalda cuore nero, completo che sembrava richiamare la sua giovinezza, la quale viveva in ogni sfaccettatura del suo vivido sguardo e non era quindi sopita tra le pieghe del tempo.
Alcuni di noi le si avvicinarono e le fecero qualche domanda.
Le menti dei ragazzi figli di questo tempo erano lontane da quella di Maria, nata e cresciuta tra coloro che le avevano insegnato l’amore per le tradizioni e per il territorio ligure, impreziosito dai profili delle verdi colline rese brillanti dalle foglie d’olivo, che si abbandonavano all’abbraccio eterno con il respiro blu, azzurro del mare tra grida di spuma.
Tuttavia quella distanza si dissolse in un istante.
Le parole tremanti, ma potenti della donna, capaci di farsi strada nei nostri giovani cuori, brillavano intorno a noi, leggere e profonde.
Maria ci svelò ogni dettaglio relativo alla sua vita di custode, che conduceva ormai da sessant’anni: talvolta poteva rivelarsi solitaria, ma ogni mattina destandosi, quando prendeva con sé la straordinaria chiave e sentiva cigolare il legno, si sentiva infinitamente fortunata poiché lei, attraverso il proprio lavoro e la propria esperienza, poteva guidare coloro che l’avrebbero sostituita un giorno, nuovi protettori dello splendore non solo del castello, ma della tradizione dell’amore verso ciò che può rendere la Liguria un luogo unico.
Ci incamminammo tutti verso ciò che restava del glorioso castello dei Clavesana.
Con Maria al nostro fianco, potevamo immaginare insieme l’aspetto originario di quella splendida costruzione.
Ci sentimmo come incantati dal colore dei fori gialli, bianchi a contrasto con il profilo azzurro del mare più lontano, elementi che uniti alla vista delle mura del castello formavano un quadro perfetto in grado di sospenderci su un filo di intensa e infrangibile gioia.
Correndo da un lato all’altro dei resti del castello e sfidando le salite e le discese che rendevano il nostro desiderio di scoprire ancora più forte, provavamo ad udire la voce dell’edificio, che aveva sicuramente tanto da raccontarci.
Intanto le ore scorrevano veloci ed il temuto istante nel quale ci saremmo dovuti allontanare da quel magico luogo stava per giungere inesorabile.
Noi però eravamo decisi a fare sì che arrivasse il più tardi possibile.
Ci soffermavamo a osservare ogni dettaglio della chiesa, delle mura del castello e della torre celata dai rami fioriti di bianco del ciliegio, fedele compagno delle prime api del venturo marzo, sotto il quale desideravamo soffermarci ancora per godere dell’elegante e antico profilo degli edifici che ci circondavamo come in un abbraccio sicuro.
Ricordo che fotografai persino delle piccole viole che sembravano quasi nascere dalla pietra e che simili a noi, si stringevano agli scalini adiacenti alla chiesa, gelose della loro incredibile casa.
La mattina però stava giungendo al termine e non potevamo impedirlo.
Credo che anche Maria si sentì per qualche attimo addolorata per questo, ma fu in quel momento che ci richiamò chiedendo a tutti noi ragazzi, ma anche agli insegnanti, di farsi vicini a lei.
Ci chiese di ascoltare attentamente la raccomandazione che teneva celata nel proprio anziano cuore, tenuto in vita dalla speranza dell’avverarsi del sogno che ci stava per svelare.
“Sarete voi giovani a custodire la nostra tradizione e lo dovete fare ascoltando la voce del vostro cuore.
Sarete voi a custodire l’amore incondizionato per il nostro borgo, per il nostro castello, per la nostra antica chiesa.
Ricordate vi prego ciò che vi sto per dire: non permettete che la magia di questo luogo venga dimenticata.
Quando non sarò più qui per vegliare a questo regalo del tempo, sarete voi a tenere in vita l’effimera fiamma del ricordo, non lasciate che si spenga.
Ragazzi, non permettete a nessuno di dimenticare le tradizioni, poiché solo con il ricordo del passato potrà esistere sempre un futuro”.
Ci lasciò così Maria, con queste parole, in quel mezzodì di fine febbraio, dal sapore di primavera, quando dopo averci osservato sorridendo ancora per qualche istante, si voltò avviandosi alla sua piccola dimora adiacente al castello.
Si era spalancata una nuova finestra nella nostra esistenza.
Avevamo aperto gli occhi e ora vedevamo oltre grazie all’incredibile donna conosciuta quella mattina.
Le parole di Maria continuavano ad echeggiare intorno a noi, insieme alle voci dell’antica storia, tra le edere verdi e i muschi odorosi, mentre ci incamminavamo verso il ritorno costeggiando la fontana nella quale un tempo si abbeveravano i pellegrini che come noi, giungevano finalmente al cospetto del castello.
Ognuno di noi sentiva di avere una responsabilità essenziale: la responsabilità di impedire che la magia delle tradizioni e del ricordo si spegnesse.
Lo ripetemmo alla nostra mente, al nostro cuore, lo ripetemmo l’uno all’altro.
Lo facevamo allora, continuiamo a farlo ora e per sempre lo faremo fino a quando un giorno, tra i resti vivi del castello, esclameremo rivolgendoci a nuovi giovani: “Presto sarete voi i custodi della nostra tradizione”.
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Maria Gandolfo Alberti, che ha vissuto fin da giovane proprio accanto ai monumenti di Castello, è stata per oltre sessant'anni la custode delle chiavi della Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo (affidatele tanti anni fa dalla Curia), del Paraxo, dell'Oratorio dei Santi Nicolau e Sebastiano (comunemente noto come San Nicolò).
Costante e presente riferimento per chiunque si inoltrasse a passeggiare tra i ruderi della borgata, in occasione di eventi culturali e cerimonie religiose, grazie alla sua disponibilità, tanti turisti, studenti e appassionati d’arte hanno potuto visitare questi splendidi monumenti del Castello di Andora.
Con i suoi racconti e ricordi di una vita ed il suo sorriso ha accompagnato un’infinità di persone, in ogni momento, nelle visite anche occasionali tra le testimonianze storiche del nostro antico borgo.
In suo onore, il 28 gennaio 2017 presso Palazzo Tagliaferro, aveva ricevuto le “Chiavi di Andora”, per essersi distinta per l’amore verso la Borgata Castello e di cui è divenuta una sorta di custode dei monumenti.
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Si ringraziano per avere gentilmente concesso le foto:
Gino Tumbarello, Maddalena Todiere, Piero Dagati e Giovanna Risso