PAESAGGIO RURALE DEL MERULA DAL 1800 AD OGGI
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IL PAESAGGIO RURALE DELLA VALLE DEL MERULA NELLA SUA EVOLUZIONE DAL 1800 AI GIORNI NOSTRI
(Carlo Volpara)
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INTRODUZIONE
Quello che vorrei proporre è semplicemente un piccolo viaggio a ritroso nel tempo per ripercorrere molto velocemente le trasformazioni paesaggistiche, agricole ed urbanistiche che hanno caratterizzato la Val Merula nel tempo e soprattutto negli ultimi duecento anni.
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INQUADRAMENTO GEOGRAFICO GENERALE
La valle del Merula è una valle relativamente breve, come d’altronde la maggior parte delle valli liguri. E’ lunga appena una quindicina di chilometri e si sviluppa da ovest verso est nella sua metà più montana, virando poi da nord a sud quando si allarga nel suo tratto più marittimo.
Tre sono i comuni interessati dal suo bacino imbrifero: partendo dall’alto e scendendo verso il mare sono in sequenza Testico, Stellanello ed Andora.
Al centro della valle fluisce il fiume Merula, fiume a regime torrentizio, che scorrendo su terreni calcarei, scisti e conglomerati prende origine nel territorio di Testico, traendo le prime acque dal Monte Arosio e subito dopo dai ripidi pendii del Monte Torre o Pizzo d’Evigno, nella parte orografica destra nel territorio di Stellanello.
Già Plinio il Vecchio parla di un fiume “Merula” che si trovava in questa zona. Per lungo tempo si credette fosse il corso d’acqua che passava vicino Albenga, anche perché il Merula veniva chiamato “Meira”, ma poi ogni cosa fu riconosciuta per quello che era ed è tuttora: il Merula pliniano era ed è il fiume che bagna Stellanello ed Andora.
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IL MERULA
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Fino al Medio Evo risultava un torrente come tanti altri fino all’altezza del cosiddetto “Ponte Romano” che si trova sotto l’antico borgo di Castello, dopodiché assumeva più l’aspetto di un canale navigabile che quello di un fiume, tant’è che sulla spalletta del ponte si possono ancora adesso osservare gli anelli ai quali attraccavano le barche che risalivano la parte bassa dell’alveo fino a San Giovanni per sbarcare ed imbarcare le merci che ivi venivano commerciate. Infatti sul Ponte Romano passava la principale via di comunicazione costiera dai tempi dei romani, la Via Julia Augusta.
Dopo il 1400, non si sa se per qualche violento moto alluvionale che deviò il corso dell’alveo sedimentando detriti alla foce o se a causa di violente mareggiate che accumularono detriti facendo diga dalla parte del mare, oppure per altri motivi ancora, la parte terminale del corso d’acqua diventa non più navigabile. Anzi si trasforma in uno stagno pantanoso e nauseabondo al punto che, oltre ai problemi di navigabilità, inizia a manifestarsi anche il ben più grave e costante problema malaria. Ciò provocherà problemi di salute non da poco alla popolazione locale, soprattutto agli abitanti di Castello, al punto che, complice anche una pestilenza, il borgo in pochi anni si spopolerà e vedrà crollare i propri abitanti da forse circa duecento che erano a poche decine.
In una carta topografica del seicento, redatta dal genovese Vinzoni, la parte del Merula immediatamente precedente la foce viene catalogata come “lac”, cioè lago, il che è tutto dire. La situazione rimarrà in questo stato di fatto per molti e molti anni, più o meno fino ai primi dell’800 quando inizierà finalmente la bonifica.
Una valida testimonianza circa la situazione andorese di inizio ’800 ci viene offerta dall’indimenticato ed efficientissimo funzionario napoleonico Gilbert Joseph Gaspard Conte de Chabrol de Volvic, Prefetto del Dipartimento di Montenotte dal 31 Gennaio 1806 al 23 Dicembre 1812.
Quando Chabrol arrivò a Savona la città stava vivendo un triste periodo di decadenza, però sotto l’amministrazione di Chabrol riprese prosperità e vitalità.
In ricordo di questa rinascita, nel centro storico della città è dedicata una piazza in sua memoria dove è apposta anche una targa, a cura di “Les amis de Napoleon” e dell’Associazione Napoleonica d’Italia, in cui si riconosce che fu l’artefice della Savona moderna.
Chabrol nelle sue “STATISTICHE DELLA PROVINCIA DI SAVONA ecc.” datate 1806, quando anche la Liguria divenne francese con annessi e connessi, parlando del Cantone di Alassio, di cui Andora faceva parte, annota attentamente che “il suolo è abbastanza pietroso e sterile, eccetto la valle di Andora e una parte di quella di Stellanello. La coltura prevalente è quella dell’olivo. Le produzioni territoriali danno olio eccellente, vino, castagne e frutta. Il clima di Alassio è forse il più temperato di tutta la riviera occidentale in virtù del riparo che offrono le alte colline. Quello di Andora e Stellanello è più freddo e soggetto agli occasionali temporali a causa dei venti di nord-ovest; quello di Laigueglia è temperato, ma troppo soggetto alla siccità d’estate. L’aria è ovunque sana e viva eccetto che ad Andora dove la stagnazione delle acque causa febbri intermittenti” (cioè malariche).
(OMISSIS)
E’ anche interessante leggere ciò che afferma molto sinteticamente riguardo le due comunità di Stellanello ed Andora.
-STELLANELLO-
“Stellanello, a nord ovest di Andora, è situata in una valle e le montagne che la circondano sono elevate: le colline sono piantumate ad olivi, vigna e bosco ceduo. Il Merula attraversa il territorio di questo comune e serve all’irrigazione di queste campagne. Il suolo è assai fertile: le principali produzioni sono olio, legumi, frumento, vino e castagne. I pascoli sono abbondanti: gli oli sono eccellenti e scambiati in gran parte in cambio di derrate di prima necessità. (OMISSIS)
La popolazione ammonta a 1.869 abitanti, la maggior parte agricoltori.”
-ANDORA-
“Andora, situata nella vallata omonima, è bagnata dal torrente Merula. (OMISSIS) Il suolo è generalmente fertile sia in pianura che in collina. I pascoli sulle montagne sono sufficienti a nutrire più di quattromila pecore transumanti. L’aria è viziata dalla stagnazione delle acque della Meira o Merula alla sua foce. Le borgate di San Pietro e San Giovanni sono soggette a febbri intermittenti.
La popolazione ammonta a 1.771 abitanti, la maggior parte agricoltori. Si crede che nel golfo, tra i capi Mellè e Cervo un tempo ci fosse un porto a un chilometro e mezzo dal mare sul Merula. Qui si vede un ponte di 40 metri di lunghezza che sembra essere antico. In mezzo alla valle, su una collinetta, ci sono ancora i resti di un antico castello, una chiesa di mediocre grandezza, d’architettura gotica. Le case rovinate che si trovano qua e là fanno credere che questo paese fosse anticamente più popolato. L’agricoltura è oggigiorno poco curata e tutto porta a credere che il paese sia stato abbandonato da una parte degli abitanti a causa dell’insalubrità del clima.”
Insomma ciò che risalta notevolmente come un ritornello dai rapporti di Chabrol de Volvic è soprattutto il problema delle febbri malariche che affliggono la bassa Val Merula. Inoltre anche lui conferma l’abbandono del borgo di Castello e la probabile esistenza nel passato di un porto canale.
Anche altri autori puntano il dito sul problema malaria, anzi, il problema.
Goffredo Casalis, abate e storico italiano, nel suo “DIZIONARIO GEOGRAFICO-STORICO-STATISTICO-COMMERCIALE degli STATI di S.M. il RE di SARDEGNA “, commissionatogli dal re Carlo Alberto, nel 1833 così relaziona: “I due terzi della sommità della valle sono cosparsi di oliveti; il rimanente è pascolo incolto e in parte coperto di querce e pini marittimi. Questo pascolo serve alla nutrizione di quasi mille pecore nell’ inverno e nella primavera. (OMISSIS)
Chiamansi golfo di Andora le acque salse che bagnano la spiaggia di esso e i vicini promontori del Meira e del Capoverde. In questo golfo si fa buona pesca e singolarmente di triglie nella stagione invernale. (OMISSIS)
Il Merula, che ha origine nel luogo di Stellanello, innaffia il territorio di Andora, presso il quale si getta nel mare. Quivi è attraversato da un ponte di cotto a dieci archi situato rimpetto al castello, che credesi essere stato costrutto dai romani. Questo ponte è lontano mezzo miglio dalla strada littorale. Dalle acque del Merula sono posti in attività dieci frantoi da olive ed altrettanti lavatoi. Il suolo di Andora produce grano, orzo, legumi. Il principale prodotto è quello delle olive, che danno ogni biennio ottomila quintali metrici di olio. Gli abitanti ne fanno commercio con Alassio, Laigueglia, Cervo, Diano ed Oneglia. (OMISSIS)
La strada che traversa il comune corre da levante a ponente: da levante conduce a Laigueglia per la lunghezza di un miglio e mezzo; da ponente mette al comune di Cervo per la lunghezza di un miglio. Questa strada è carrozzabile e una delle più comode di tutta questa riviera occidentale.
Gli abitanti di Andora sono soggetti alle febbri intermittenti. Popolazione 1909. (OMISSIS)
In una frazione del comune di Andora, per esempio, i terrazzani si mostrano lenti al lavoro, né punto scorgesi in essi quella cura solerte e quella economia del tempo che distingue il ligure contadino. Alla quale accidia e lentezza influiscono l’eccessivo calore, che ivi domina nella state, e l’aria malsana cagionata dai piccoli stagni che si formano lungo l’alveo e alla foce del torrente Meira, da cui il territorio è diviso. Le malattie a cui per lo passato essi andarono maggiormente soggetti, erano le febbri intermittenti, le quali quasi affatto scomparvero dopo il prosciugamento di varie paludi. “
Gli scritti dei due autori appena esaminati ci permettono di riflettere sulle seguenti curiosità.
Nella valle di Andora nel 1806 doveva essere molto fiorente la pastorizia poiché Chabrol parlava di ben 4.000 pecore, ma nel 1833 il numero dei capi sembra essere di molto diminuito come affermato dal Casalis che ne riporta solo 1.000.
Nel 1833, rispetto all’inizio del secolo la foce del Merula permane paludosa e malsana, ma la novità è rappresentata dall’ormai avvenuta costruzione della strada litoranea che il Casalis definisce ….” In ottime condizioni e carrozzabile …..”
Si deve ricordare che sotto il governo francese venne decretata la costruzione della innovativa panoramica strada rotabile della cornice, quella che sarebbe stata l’antesignana dell’attuale Via Aurelia.
Documenti riportano che il 26 Giugno 1814 navi inglesi spararono colpi di cannone sugli operai addetti alla costruzione di detta strada su Capo Mele. La costruzione di questa strada fu temporaneamente sospesa a causa della caduta di Napoleone e fu ripresa e completata molti anni dopo, solo nel 1832, sotto il regno di Carlo Felice.
Tornando al discorso paludi, nel 1834 Davide Bertolotti in “VIAGGIO NELLA LIGURIA MARITTIMA” con personalissimo estro scrive: “Un’aria umida e soffocante, non rimutata e viziata dalle esalazioni del torrente stagnante, fa torpidi, squallidi, infingardi e quindi più miseri gli abitanti della valle andoriana.”, osservando anche che nel suo tratto non paludoso “…la fiumara di Andora va ogni anno rodendo qualche tratto della poca pianura…”
Il Bertolotti, dopo questa descrizione a dir poco fantozziana degli abitanti della bassa val Merula, va un po’ oltre la mera cronaca ambientale e ci descrive per primo la metodica di raccolta delle olive e la tecnica di spremitura del tempo.
“Le olive che cadono spontanee non fanno mai l’olio di primordine, prendendo facilmente il gusto della terra su cui giacciono. Nel metodo di fabbricar l’olio a fuoco quella pasta vien posta in una grande caldaia di rame sotto la quale arde il fuoco. Quivi si lascia riscaldar qualche tempo e si viene rivoltolandola con una pala. Altri bagnano i cestelli con acqua bollente. Da questo pernicioso metodo dalla qualità men buona della pianta, e dal pessimo uso di tener le olive lungamente ammucchiate prima di frangerle, deriva la grande inferiorità degli oli della Riviera Orientale, paragonati con quelli dell’Occidentale, ossia oltre occidentale, perché il confine degli oli eccellenti è la fiumara di Andora, almeno a un di presso. Ciò sia però detto in generale, perché i buoni georgici si trovano in ogni luogo.”
Al di là della solita solfa circa la malsanità della zona costiera, per la prima volta il Merula, anche se solo come confine geografico, assume una nota di positività poiché fa da spartiacque tra il territorio dove si produce un olio dozzinale, a levante, e quello dove l’olio è veramente un prodotto di alta qualità, cioè a ponente.
Questi concetti vengono ripresi e ribaditi circa un ventennio dopo dal giornalista Guglielmo Stefani il quale nel suo “DIZIONARIO COROGRAFICO DEGLI STATI SARDI DI TERRAFERMA” del 1854 così scrive.
“Andora è capoluogo di mandamento in provincia di Albenga da cui dista tre ore e mezzo e comprende anche Stellanello, Testico, Casanova e Vellego. La popolazione è di 1933 unità.
(OMISSIS)
I frequenti straripamenti della Merula rendono l’aria malsana e sul mare si trova un pantano ricco di sanguisughe. La valle è sparsa di molte ville e di molti castelli; i colli che fiancheggiano sono ricoperti da oliveti e dove da pascoli. Ad oriente della fiumara di Andora si avanza lunghissimo sul mare il capo delle Mele, detto da Giustiniani, delle Meire, chiamandolo anche Meira o Merula. La Merula serve in qualche modo di separazione alla specie degli olivi ed ai metodi di far l’olio. Di fatti di là della Merula si coltiva la taggiasca, che produce gli oli squisiti (omissis)…di qua la colombara che dà un olio più grasso, migliore per le fabbriche, ma non piacevole al gusto. E di là estraesi l’olio con acqua fredda, di qua con acqua bollente. Onde risulta che col primo metodo l’olio conserva la soavità del frutto, ma rende meno; nel secondo succede tutto il contrario.”
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L’OLIVICOLTURA
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Abbiamo pertanto visto che, malgrado la pesante tiara delle malsane paludi della zona costiera, il binomio Val Merula-olivicoltura è un binomio pressoché indissolubile da quando i primi uomini decisero di insediarsi in questo luogo per farne la loro residenza fissa.
Se è vero che i colonizzatori nonché fondatori di Andora furono i focesi, è altrettanto vero che la coltura dell’ulivo inizia coi greci e continua coi romani, sebbene la diffusione su larga scala della sua coltivazione sia da ascriversi ai monaci di San Colombano di Bobbio.
Ludovico Giordano nel suo “I BENEDETTINI NELLA LIGURIA OCCIDENTALE” riporta a tal proposito: “Alla diffusione del monachesimo bobbiese è poi attribuibile l’introduzione della coltivazione dell’ulivo nella Liguria marittima che, in alcune zone più occidentali, conserva ancora il nome di “colombaire” ad una determinata qualità di olive perché introdotte dai monaci di San Colombano”.
Comunque furono altri monaci, e per la precisione i Benedettini di Taggia che perfezionarono il lavoro già compiuto in precedenza sugli ulivi selvatici della macchia mediterranea, creando la notissima cultivar “taggiasca”, anche se recentemente sono stati indicati i monaci di San Colombano di Lerino, l’attuale isola di Lerins davanti a Cannes, come i precursori della cultivar taggiasca.
La tesi più accreditata è che i Benedettini tabiesi arrivarono alla realizzazione di questa nuova varietà incrociando e reincrociando più volte la pianta preesistente locale con quella tipica della zona di Cassino, luogo d’origine del loro ordine. Attraverso innesti selezionati i monaci riuscirono a creare una specie dalle indubbie dimensioni ridotte, ma altrettanto indubbiamente resistente ai parassiti ed alle intemperie e per di più dalla resa eccezionale e soprattutto di eccelsa qualità, producente un olio di notevole qualità aromatica, pressoché senza pari ancora al giorno d’oggi.
I documenti affermano che, quando nell’anno 891 il convento di Taggia venne distrutto durante un’incursione saracena, la diffusione della coltivazione della taggiasca andava già da Andora alla Francia. Lo sviluppo della sua diffusione proseguì nel tempo subendo due incrementi significativi in altrettanti periodi: il primo si verificò tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 ed il secondo, periodo tra l’altro in cui la coltura dell’ulivo ebbe la sua massima diffusione, a cavallo tra l’ultimo trentennio del ‘700 e la prima metà dell’800.
L’ultima parte espansiva fu determinata dal forte aumento di domanda di olio d’oliva sia da parte del Nord Europa, sia dalle richieste provenienti dalla Francia dove l’olivicoltura era stata irrimediabilmente danneggiata dalla piccola glaciazione avvenuta nel ‘700. Gli ulivi, morti a causa del freddo, non erano più stati sostituiti, ma rimpiazzati dalla coltura della vite. Non da ultimo ci fu pure una grande richiesta da parte della industria del sapone marsigliese che si trovava in piena espansione.
A questi periodi di espansione colturale si lega anche la realizzazione dei particolari terrazzamenti, detti fasce, che aiutarono non poco nella coltivazione di queste piante e non solo. Furono sempre i Benedettini ad introdurre l’usanza di bonificare i terreni coltivabili liberandoli dalle pietre e di risistemarle sotto forma di muri e muretti a secco per meglio contenere la terra coltivabile. In questa maniera i terreni diventarono più produttivi ed anche meglio usufruibili. La realizzazione dei terrazzamenti proseguì nel tempo a ritmo costante ovunque, ma conobbe la sua massima espansione, seguendo di pari passo la coltivazione dell’ulivo, proprio tra fine settecento e la prima metà dell’ottocento, quando la redditività dell’olivicoltura conobbe il suo massimo storico e gli agricoltori arrivarono a bonificare i costoni delle colline fino alle creste proprio in conseguenza della notevole richiesta di olio d’oliva.
Al proposito è significativa la testimonianza di Marco Maglioni, già sindaco di Andora, il quale nei “CENNI STORICI SULLA VALLATA E IL CASTELLO DI ANDORA” editi nel 1895, così scrive “… a seguito di un eccessivo disboscamento , effettuato con lo scopo di ampliare le colture fino alle vette delle colline circostanti, uno spaventoso temporale desolò la vallata e mutò il corso del torrente Meira, che dalla sinistra portò a destra il proprio letto…”
Già allora si imputavano i danni, dovuti alle alluvioni, al concorso della mano colpevole dell’uomo!
Ciò che è interessante rilevare è che sino al XIX secolo il Merula veniva considerato il confine tra la diffusione di due tipiche cultivar liguri: la “taggiasca”, coltivata sulla sponda destra e la “colombara” su quella sinistra, quest’ultima considerata produttrice di un olio più grossolano e meno aromatico. In seguito la “taggiasca” prese nettamente il sopravvento ed attualmente possiamo affermare che ormai sono rimasti pochi i siti in cui compare ancora la “colombara”.
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MULINI E FRANTOI
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Antico Frantoio Testa - 1908
Il fatto che si sia posto l’accento sulla produzione olearia non deve però far pensare che la produzione agricola della val Merula si limitasse a questa monocoltura. Altre colture erano storicamente ben radicate in valle e forse la più anticamente sviluppata era quella cerealicola. Nei numerosi rapporti letti abbiamo già potuto notare che vi era una forte produzione di grano e di orzo, oltre che di vino e legumi.
Il vino prodotto in valle, tanto ad Andora quanto a Stellanello, veniva molto apprezzato, ma al sorgere del XX secolo altre coltivazioni si sostituirono a quelle della vite, la quale, solo in tempi recenti sta tornando prepotentemente protagonista.
Per quanto riguarda la produzione di cereali, è vero che la produzione si ridusse durante il periodo di maggior espansione della coltivazione dell’olivo, ma rimase sempre fortemente radicata nella tradizione valligiana, tanto che ancora durante l’ultima guerra i contadini seminavano il grano per soddisfare i fabbisogni familiari ed a Stellanello, per tutto il tempo del conflitto, fu attivo il molino della famiglia Armato.
La notevole produzione di granaglie dei tempi passati è testimoniata ancor oggi dalla presenza sulle creste delle colline dei resti di numerosi mulini a vento, che rappresentarono la primitiva e più antica metodica di sfruttamento energetico per far girare le macine. Possiamo ancora riconoscerne uno sulla collina che delimita la sponda sinistra della valle del Duomo, un altro si trova invece sopra il Ristorante “La Crocetta”, mentre altri due sono sulla collina a nord dell’abitato di Colla Micheri ed ancora uno sul cocuzzolo della cresta appena a sud di Colla Micheri. La loro posizione sulle alture implicava però una notevole perdita di tempo per raggiungerli ed il fatto non trascurabile che le bestie da soma, sia in salita che in discesa lungo le ripide mulattiere, non potevano procedere a pieno carico.
Mulino a vento sulla cresta della Valle di Duomo
Mulino Tagliaferro - 2005
Mulino Tagliaferro - 1931
Mulini a vento 1931 - Molino di Spaleta
A destra nellaa foto due mulini a vento - anni '50 - Mulino di Spaleta
A destra, parzialmente coperto dalle alberature - Mulino di Pilato
Pertanto l’energia eolica fu progressivamente sostituita da quella idrica ed i mulini a vento lasciarono il passo a quelli costruiti lungo i rii o che venivano azionati dall’acqua captata dai ruscelli e poi veicolata mediante canali.
Un discorso particolare meritano i numerosi frantoi per la lavorazione delle olive. Anche in tempi antichi esistevano grossi frantoi commerciali ed altri di dimensioni più ridotte a livello familiare. In certe epoche quasi tutte le famiglie possedevano un proprio frantoio, chi maggiore e chi minore. Anticamente tutti venivano azionati con forza muscolare, cioè dalle bestie e qualcuno anche a braccia, ma poi anche per i frantoi si arrivò ad utilizzare la forza idrica.
Abbiamo visto che il Casalis afferma che il Merula faceva muovere ben dieci frantoi. La particolarità di questi era che, prima di tutto erano di grosse dimensioni e poi che venivano mossi dalla medesima acqua, ovvero l’acqua portata dalla cosiddetta “Bera”.
Come scrive la Prof. Alma Anfosso, nella sua quanto mai preziosa ed insostituibile opera “QUESTA NOSTRA ANDORA”, la “Bera” “era un solido canale sopraelevato mediante archi regolari e completi, costruito con grossi conci non perfettamente squadrati”.
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Io correggo il tiro affermando che non sempre era sopraelevata e scoperta perché a volte scorreva anche sotterraneamente in condotti che resistono tuttora allo scorrere del tempo.
Sarebbe molto interessante ricostruire con precisione quale fosse il suo percorso dall’origine allo sbocco in mare, ma purtroppo la mancanza di tempo non mi ha ancora permesso di completare questo studio.
Per il momento posso solo affermare con sufficiente precisione che questo beodo, scorrendo sempre sul lato orografico destro della valle, si sviluppava grossolanamente in tre parti: la prima nasceva a Stellanello a livello del ponte sul Merula e faceva girare alcuni mulini e frantoi, tutti in territorio stellanellese, dopodiché moriva dopo poche centinaia di metri.
La seconda captava l’acqua a livello del guado di fronte al bivio per Tigorella e principalmente faceva girare solo l’enorme ruota, di ben sei metri di diametro, del frantoio Morro “Curumbàn”, andando a spegnersi di nuovo nel torrente alla confluenza col rio Moltedo. C’è da notare che la ruota di questo frantoio fino ad un lustro fa girava ancora grazie alla forza motrice apportata dalla Bera”, come testimoniato dai proprietari.
Frantoio Morro
Il terzo segmento, il più interessante, prendeva acqua da un piccolo sbarramento posto di fronte alla borgata Lanfredi e, costeggiando la collina, si dirigeva verso il basso Duomo azionando il frantoio Testa, già Anfosso, e poi a Molino Nuovo “u gumbu de Rafè”, che prima era stato dei Musso.
Antico frantoio vicino al ponte di Moltedo, davanti alla borgata Lanfredi
Ex frantoio Testa
Scorrendo attraverso i terreni perveniva poi al “Gumbassu”, in frazione San Giovanni, dove in realtà i gumbi erano due, quindi, sempre attraverso i campi raggiungeva la Marina passando dietro le attuali case a schiera di Via Carminati. Arrivava infine a Palazzo Tagliaferro dove azionava l’ultima macina prima di gettarsi in mare all’altezza dell’attuale Parco delle Farfalle.
Di questa antica “Bera”, che fu costruita nel XVII secolo, a tutt’oggi rimane ben visibile un tratto di poche decine di metri appena sopra l’antico caseggiato del “Gumbassu”. Si tratta di un tratto sopraelevato su una decina di archi ancora in discreto stato di conservazione, che nonostante le ingiurie del tempo riesce a trasmettere ancora appieno il fascino del tempo che fu con una nota romantica. Sarebbe un vero peccato che l’incuria, la trascuratezza e l’oblio, sia da parte dei privati che delle istituzioni, facessero perdere entro pochi anni anche quest’ultimo pezzo di storia economica e produttiva andorese vecchio di centinaia e centinaia di anni.
Il beodo, riceveva lungo il suo percorso le acque dei principali rii e delle sorgenti più potenti del lato destro orografico della valle, che è indubbiamente il lato più umido dei due che la delimitano, e pertanto non rimaneva mai senz’acqua e permetteva ai locali di poter soddisfare le esigenze civili e lavorative anche in piena estate.
Nella valletta di Duomo esisteva ed esiste tuttora un beodo di dimensioni minori. Anch’esso provvedeva a soddisfare sia le esigenze motrici dei frantoi e mulini che si trovavano in quella valletta, che le esigenze di irrigazione dei campi che si trovano ai piedi della borgata del Duomo. E’ singolare il fatto che l’acqua fosse amministrata e suddivisa tra gli aventi diritto da un vero e proprio arbitro, una specie di Magistrato delle Acque, il quale, soprattutto nei periodi di siccità, orologio alla mano, controllava che la spartizione del prezioso liquido fosse effettuata seguendo le rigide regole codificate e tutto ciò fino a non più di quaranta anni fa.
La sponda sinistra orografica della Val Merula, al contrario, non è mai stata altrettanto ricca di acque, tanto che i nella zona di Castello erano tipiche le cisterne, proprio per ovviare alla cronica penuria di acqua. L’unica sorgente degna di rilievo al di sotto di San Pietro è la sorgente di “Mezzacqua”, sorgente talmente forte che in tempi non lontani, ovvero ancora all’inizio del XX secolo, serviva ad irrigare i possedimenti del Marchese Marco Maglioni a Villa Mazè.
Fino ai primi anni ’60 era infatti ammirabile lo spettacolare acquedotto aereo del XVIII sec. che captava l’acqua dalla sorgente di Mezzacqua per portarla nei terreni più a mare. Questo acquedotto si sviluppava su decine di arcate e caratterizzava in modo singolare il panorama della zona a levante di Andora Marina, conferendo al paesaggio una nota del tutto particolare. Purtroppo non è riuscito a sopravvivere al cieco furore edilizio degli anni sessanta ed oggi, a testimonianza del nostro passato, sono rimaste in piedi solo tre misere arcate.
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LA VALLE DEGLI OLEANDRI
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Abbiamo quindi visto che il Merula, soprattutto per la sua parte terminale, cioè quella al di sotto del Ponte Romano, è stato il supremo condizionatore della vita socio economica andorese per secoli e secoli, almeno fino a quando non fu del tutto bonificato e ciò avvenne definitivamente solo nella seconda metà dell’800. Nella sua parte superiore, anche se era privo di paludi, doveva comunque avere un aspetto simile a quello di una fiumara calabrese, senza argini, dal letto variabile, facilmente soggetto a piene ricorrenti come tutti i torrenti, come ricorrenti erano le esondazioni che incidevano molto sulla scelta delle coltivazioni in pianura. Insomma rappresentava una variabile non facilmente calcolabile. Infatti i contadini nelle sue adiacenze si limitavano alla coltura dell’ulivo per non correre il rischio di perdere il raccolto a causa di una piena improvvisa. Insomma era il padre padrone del bassopiano ed i più anziani si ricordano ancora le due ultime piene terribili: quella degli anni trenta, quando gli impiegati del municipio, allora sito a Molino Nuovo, furono costretti ad evacuare lo stabile calandosi dalle finestre mediante scale a pioli esterne e l’ultima in assoluto, quella del 1948, quando, tra i tanti danni riscontrati, fu anche cancellato il campo di calcio della U. S. Valmerula, in località Molino Nuovo, né più né meno dove si trova attualmente il glorioso comunale dove ha sempre giocato l’Andora Calcio. Poi nella seconda metà degli anni ’50 fu finalmente arginato e da allora le periodiche alluvioni sono diventate fortunatamente solo un ricordo.
L’arginamento è stato indubbiamente una grande cosa e noi oggi non potremmo nemmeno concepire il nostro torrente senza argini, poiché, considerando i sempre più frequenti e violenti fortunali, oramai c’è quasi da temere anche con l’arginamento. Le opere pubbliche sono importanti, talvolta addirittura fondamentali, ma spesso cancellano le bellezze della natura ed il loro romantico fascino cosicché noi oggi non siamo nemmeno in grado di immaginare lo spettacolo che il Merula, prima che fosse ammaestrato, dispensava ai valligiani ed ai pochi forestieri che arrivavano fin qua, quasi fosse un tributo risarcitorio per i tanti problemi che arrecava.
Non a caso il soprannome della Val Merula era “Valle degli Oleandri”, poiché questo arbusto, che nei mesi estivi è solito esplodere in uno sfavillio di colori sgargianti, aveva trovato il proprio ambiente ottimale proprio tra i sassi e le anse di questo torrente.
Il torrente si vestiva a festa e diventava un unico serpentone bianco-rosato che ornava la valle da cima a fondo ed il suo cromatismo era talmente accattivante che arrivavano addirittura gli inglesi da Alassio per ammirarlo, fotografarlo, oppure ritrarlo sulla tavolozza.
Uno di questi inglesi, in realtà un irlandese, tale Richard West, ci ha lasciato numerosi dipinti della valle, realizzati ad inizio XX secolo, che al di là dell’indubbio valore artistico, rappresentano una preziosa testimonianza dello stato della natura di allora.
I suoi dipinti si possono ammirare nella Memorial Gallery Richard West di Alassio.
Un vero inglese, Edward Berry, in una guida storica e artistica della Riviera di Ponente del 1934, redatta per i numerosi inglesi residenti ad Alassio e in riviera, scrive che “Una delle gite preferite partendo da Alassio è quella che conduce attraverso la valle di Andora e Stellanello con uno scenario molto bello, fra colline e campi ricchi di fiori selvatici e con oleandri nel letto del torrente. Questa vallata, percorsa dal torrente Merula, è sempre stata celebre per il fertile suolo e, quantunque frutteti di pesche abbiano di recente sostituito i magnifici boschi di ulivi per i quali era famosa, lo splendore dei fiori in primavera ed i frutti rigogliosi che riforniscono i mercati della riviera in estate testimoniano ancora la fecondità della zona.”.
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ARGINAMENTO DEL MERULA
PIENA DEL TORRENTE MERULA - 1966
IL NOVECENTO
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Carlo Volpara nel suo “A STAMPINO C’ERA IL CONTE” così sintetizza: “Il primo quarto di secolo del ‘900 vede Andora e la sua valle uscire dal torpore e dall’immobilismo che l’avevano caratterizzata nel lungo periodo precedente e condurla incontro a profonde trasformazioni alcune delle quali la caratterizzano ancora attualmente. Dopo la costruzione della nuova stazione ferroviaria, arriva anche l’energia elettrica e quasi in contemporanea si spengono le fornaci per la fabbricazione dei mattoni lasciando come testimonianza le due tipiche “sotte” dalle quali veniva estratta l’argilla che, una alla Marina e l’altra appena a monte del ponte ferroviario, per molti anni ancora testimonieranno questo piccolo passato industriale.
"a sòtta" (odierna via Usodimare - via Caboto)
Ciò che risulta più evidente e colpisce maggiormente nel processo di cambiamento è proprio il paesaggio che si trasforma. Fino allora nella parte planiziale della bassa Val Merula non si trovava quasi costruzione alcuna poiché il Merula, non ancora arginato, con le sue periodiche disastrose piene, rovinava sistematicamente i campi del fondovalle rendendo vano ogni tentativo di coltura e alla stessa stregua era assolutamente sconsigliabile edificare abitazioni troppo vicino al letto del fiume. L’unica coltivazione che gli andoresi erano riusciti ad impiantarvi era stata quella dell’ulivo ed in una maniera talmente fitta che, come afferma un altro autore, Carlo Reynaudi ancora all’inizio del’900 …” dalla stazione di Andora, passando fra una vera foresta di ulivi… si arriva fino all’abitato di Molino Nuovo prima di uscirne”.
Per avere una vaga idea di quale aspetto dovesse avere e come dovesse presentarsi la nostra valle in tutta la parte planiziale medio-bassa fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale, bisogna pensare che il paesaggio era uniforme a quello che si presenta ancora oggi solamente nella parte alta di Piangrande, unico punto dove è sopravvissuto qualche frammento della grande foresta di ulivi che fino ad allora e per secoli aveva contraddistinto il paesaggio.
Ma dopo la Grande Guerra quasi tutti gli uliveti sono scomparsi poiché lo stato paga molto bene la legna per usarla come combustibile per le locomotive oppure come traversine per la costruzione delle trincee. I terreni, ormai deprezzati, si sono trasformati in squallidi gerbidi che al massimo possono fungere da pascoli ed è a questo punto che si verifica la prima vera ondata immigratoria rappresentata principalmente da contadini liguri che provengono dal savonese e dintorni. Costoro comprano i terreni incolti dai proprietari locali a basso costo e nel corso di pochi anni a prezzo di tanta fatica e sudore li trasformano in rigogliosi frutteti.”
Vengono così piantati grandiosi frutteti là dove fino a pochi anni prima c’erano uliveti. Si tratta di peschi, albicocchi e peri, ma la produzione per eccellenza è quella delle pesche.
La frutta della piana andorese in breve tempo si fa conoscere ed apprezzare sia nel circondario che nelle grandi città. Andora, che fino allora mal sopportava il sarcastico detto: “Andora, chi la cerca non la trova”, riesce finalmente ad acquisire visibilità e ad essere riconosciuta oltre i meri confini liguri.
Schiere di donne alacri lavorano all’incestamento della frutta che viene ordinatamente sistemata nei “plateau” e “gaggette” prodotti dalle segherie locali “e sère”, seguendo un ambito di totale autonomia produttiva locale. Le cassette vengono poi spedite mediante autotreni o vagoni ferroviari tanto in Liguria quanto nelle grandi città del nord Italia. C’è anche qualcuno, come il Commendator Quaglia, che si permette il lusso di spedire le proprie pesche al mercato londinese di Covent Garden già prima della guerra!
Questa economia d’eccellenza durerà alcuni decenni, almeno fino a quando i mutati tempi ed il boom economico non imporranno forzatamente un altro mutamento paesaggistico nella piana andorese a causa della crescente richiesta di abitazioni al mare.
Si comincia in sordina già durante gli anni cinquanta con qualche modesta villetta sulle prime pendici collinari, ma la vera esplosione avviene all’inizio degli anni sessanta quando il nostro paese entra nelle mire dei grandi palazzinari venuti da fuori ed inizia l’edificazione dell’attuale Andora centro.
I frutteti e gli orti della Marina vengono progressivamente soppiantati da un altro genere di coltivazione, evidentemente molto più redditizio, quello dei palazzi. Dalla mattina alla sera sorgono e crescono in maniera spropositata condomini a cinque piani senza sosta e ciò che è più desolante è che si costruisce ovunque, anche a pochi metri dal mare con poco stile e poca estetica. Fortunatamente la stretta zona litoranea, immediatamente alle spalle della battigia, era già stata occupata durante gli anni trenta dalle colonie marine edificate per i figli dei lavoratori dipendenti delle città di Cuneo, Asti, Milano, Genova. Questo contribuirà a salvaguardare in qualche modo i primi metri retrostanti la spiaggia, altrimenti anche Andora avrebbe fatto la fine di tanti comuni rivieraschi, divenuti esempi negativi di urbanizzazione selvaggia soprattutto a causa degli edifici costruiti in riva al mare, anche se purtroppo recentemente abbiamo avuto un esempio di tal genere anche nel nostro paese.
Durante questo boom edilizio, le modeste casette coloniche a poco a poco vengono abbattute per far posto ai palazzoni a cinque piani ed alle vie squadrate. Anche l’antico e spettacolare acquedotto aereo del XVIII secolo, con le sue molteplici arcate che originava dalle sorgenti di Mezzacqua e portava i rifornimenti idrici fino alle proprietà del Marchese Maglioni di Villa Mazè, cade vittima delle speculazioni edilizie.
Come ho già riferito, questo acquedotto, si sviluppava su decine di arcate e caratterizzava in modo del tutto originale la piana agricola andorese, tanto da poter diventare una testimonianza significativa della nostra storia rurale ed economica, ma probabilmente intralciava troppo le mire speculative, tanto che oggi ne rimangono in piedi solo tre misere arcate.
Anche Palazzo Tagliaferro corre il severo rischio di essere immolato sull’altare della novella filosofia modernista a tal punto che viene paventato il suo abbattimento onde poter far arrivare Via Cavour direttamente al mare! Alle Belle Arti qualcuno però conserva ancora un po’ di senno e gli insensati amministratori pubblici del tempo devono sottostare all’autorità specifica.
Di pari passo con lo sviluppo urbanistico, inizia a cambiare anche il modo di coltivare degli agricoltori locali. Non si coltiva più solamente all’aperto, ma si inizia a coltivare al chiuso, cioè inizia la costruzione delle serre, dapprima in legno e poi in metallo e le colture vengono differenziate. Negli spazi agricoli residui le coltivazioni da estensive si evolvono in intensive.
Inizia l’epoca dell’orticoltura in serra e della floricoltura.
Garofani, rose, anemoni vengono portati ogni mattina al mercato di Sanremo ed Andora entra a far parte della Riviera dei Fiori.
E’ proprio in quel periodo dai connotati altamente floricoli che una giovane ed inesperta floricultrice, Maria Luisa Manno, che un paio di anni prima aveva ereditato dal suocero, morto prematuramente, una serra di strelizie non ancora sufficientemente cresciute per dare rendita, giovane, ma non per ciò priva di ingegno, in attesa che nel frattempo le piante diventassero produttive, cerca di far rendere in maniera alternativa la serra. Ed ecco che prova a seminare, tra le ancora piccole e rade piante di strelizia, alcune strisce di …..di…. di basilico, sì proprio di basilico e così nel 1969 inizia la fortunata saga del basilico di Andora.
Il primo anno è puramente sperimentale, è l’anno zero, e serve per constatare quanto sia difficoltoso coltivarlo, infatti il guadagno ricavato è puramente simbolico: mille lire, ma il secondo ricava già trentamila lire. La floricultrice si rende conto che ci si può fare un buon guadagno. Per qualche anno ancora proseguirà nella coltura estendendola a tutta la serra, ma non potrà continuare ancora a lungo a coltivarlo perché ormai le strelizie stanno crescendo ed in breve non ci sarà più spazio per il basilico.
Ma ormai il ghiaccio è rotto e gli amici agricoltori vicini di podere hanno visto e capito la lezione: il basilico può essere più che un’opportunità!
In pochi anni la sua coltivazione si allarga a macchia d’olio ed oggi rappresenta un’altra eccellenza della Val Merula. Il basilico di Andora è conosciuto ovunque ed il suo profumo, riempiendo magnificamente le narici, è sinonimo di dieta mediterranea. Con il basilico D.O.P. continua anche al giorno d’oggi la saga dei prodotti d’eccellenza della nostra valle.
Ma c’è un’altra bella storia da raccontare, relativa ad una coltivazione locale più di nicchia, ed è quella relativa alla vicenda della Cipolla Belendina.
Circa un secolo fa e forse anche più, un navigante andorese, tal Settimio Denegri, di ritorno da uno dei suoi viaggi di lavoro nell’oriente, porta ad Andora i semi di una cipolla particolare, grande, dalla forma a fiasco, di sapore dolce e di un colorito granata che riempie il cuore.
La sua coltivazione si diffonde soprattutto nella zona di Mezzacqua e perdura fino agli anni ’60 quando gli orti della Marina devono mestamente lasciare il passo ai costruendi palazzi che caratterizzeranno e purtroppo caratterizzano ancora la moderna Andora. Un agricoltore in particolare, Trentino Bellenda, dopo averla coltivata per una vita, continua a conservarne la semenza, anche quando va in pensione. Forse rimane l’ultimo possessore della semenza. Ecco allora che arriva in suo soccorso un altro andorese più giovane, che decide di salvare questo splendido esempio di biodiversità e recuperarne la memoria storica oltre che il valore commerciale: si tratta di Marco Gagliolo, il quale decide di battezzarla col nome del suo ultimo possessore.
Ed è così che, dopo anni di strenuo impegno e pubblicizzazione nelle giuste sedi, la Cipolla Belendina ottiene l’elevazione a Presidio Slow Food.
Oggi la Cipolla Belendina è una produzione tipica di Andora ed il Presidio è il risultato della lungimiranza e del grande impegno di un grande andorese, Marco Gagliolo, che per anni ne ha promosso la tutela, la valorizzazione, ne ha ricostruito la storia e con il Comitato per la promozione della Cipolla Belendina, ha favorito la condizioni per l’ottenimento del Presidio.
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COSTA E VIE COSTIERE
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“Tra Lerice e Turbia la piu’ diserta,
la piu’ rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta”
Così il Sommo Poeta, con tre soli endecasillabi, fotografava la Liguria nel Canto III del Purgatorio e non si poteva certo dargli torto.
Il territorio ligure è stato ostico e disagevole, come la sua gente, ad essere percorso ed attraversato in ogni tempo. Anche i Romani, maestri costruttori e che non si spaventavano certo quando dovevano costruire opere pubbliche, e men che meno delle strade, trovarono notevoli difficoltà nel realizzare una via consolare che permettesse loro di attraversare la nostra regione per raggiungere via terra sia la Gallia, che l’Iberia. Le difficoltà si rivelarono tanto sul piano militare che tecnico.
I Liguri, popolazione bellicosissima, difesero strenuamente il proprio territorio sia da soli che tramite alleanza con i Cartaginesi ed in tal modo riuscirono a tenere in scacco le pur superiori legioni romane per decenni e decenni.
Ma alla fine del secondo secolo A.C. anch’essi dovettero definitivamente capitolare e sottomettersi all’Urbe.
I Romani presero così possesso della stretta fascia costiera, che d'altronde era la sola cosa che a loro interessava, onde poter realizzare pratiche e rapide vie di comunicazione.
Estratto della Tabula Peutingeriana
Sul nostro territorio costiero era già presente la primitiva Ligure Costiera alla quale i Romani, in quel di Vado, raccordarono la via consolare Aurelia già presente nei territori da loro precedentemente occupati. Tale via si sviluppava da Roma fino a Pisa, passava per Lucca, percorreva la Garfagnana, entrava in Lunigiana scendendo fino a Luni dove terminava in direzione marittima, mentre all’interno proseguiva scavalcando gli Appennini al passo della Cisa, scendeva a Parma, si raccordava alla via Emilia, transitava per Piacenza, Tortona, Acqui ed infine ripassava gli Appennini al Cadibona per terminare a Vado. Insomma, per andare da Roma alla Provenza bisognava passare per la pianura padana e ciò la dice lunga sulle difficoltà tecniche di realizzazione stradale che l’orografia ligure rappresentava. Infatti molto spesso si preferiva risolvere radicalmente il problema viario, relativamente al tratto ligure, spostandosi via mare.
Ovviamente alla Ligure Costiera i Romani apportarono delle migliorie, ma il salto di qualità si realizzò circa un secolo più tardi, nel 13 A.C., quando fu realizzata la Julia Augusta, che rappresentava la prosecuzione dell’Aurelia fino ad Arles. In taluni tratti si sovrapponeva alla precedente Ligure Costiera, mentre in altri rappresentava un’alternativa di percorso.
Sul nostro territorio comunale entrambe vi entravano dal passo di Colla Micheri e dopo pochi metri i loro percorsi si dividevano nettamente.
L’Aurelia - Ligure Costiera, digradando dolcemente, scendeva al colletto della valle di Mezzacqua, passava dove ora c’è la cappella dei Santi Cosma e Damiano, raggiungeva la piana appena sotto l’attuale ferrovia, superava quindi il fiume Merula con un ponte in pietra i cui resti vennero alla luce durante i lavori di arginamento degli anni ‘50 e di cui ancora oggi sono visibili alcune pietre affioranti appena a valle del Ponte Europa. Dopodiché si dirigeva verso sud ovest tagliando la pianura, allora non ancora paludosa, e quasi certamente il suo percorso di allora è sovrapponibile a quello dell’attuale stretta e curvilinea via Antica Romana. Evidentemente questo tratto di strada ligure-romana, sebbene in pianura, si è conservato nel tempo, come di generazione in generazione si è anche tramandata la sua denominazione. Sarebbe veramente interessante sapere se, scavando sotto i suoi sedimi, si possano ancora rinvenire gli “strata” di romanica memoria…
Proseguiva quindi verso l’attuale via Aurelia, di nuovo sicuramente sovrapponendosi ad essa in più punti, finché all’altezza di Capo Mimosa l‘antico tracciato saliva decisamente più in alto.
Anche qui la prova migliore circa l’andamento del suo percorso è testimoniata dalla toponomastica contemporanea; nel Comune di Cervo vi è infatti una strada collinare, chiamata “Strada Romana di Levante”, il cui nome evidentemente fa riferimento all’antico tracciato dell’Aurelia - Ligure Costiera.
Ed a conferma di ciò, lungo il suo percorso sono ancora visibili qua e là, ben vivi e vegeti, i diretti discendenti dei carrubi che l’amministrazione romana soleva piantumare con dovizia lungo le proprie strade imperiali allo scopo di non far mai mancare l’adeguato carburante ai quadrupedi, costituenti il motore dei trasporti dell’epoca.
La via Julia Augusta, entrando da Colla Micheri, seguiva invece immediatamente un diverso percorso.
Scendeva dritta nella valletta dietro località Castello, risaliva il Colletto della Gabella, per poi ridiscendere nuovamente diritta puntando verso il Ponte Romano, ponte che di romano ha solamente conservato i piedritti, poichè le arcate sono di epoca medioevale. Indi risaliva sull’altro lato collinare passando dall’ attuale Chiesa di San Giovanni, transitava lungo l’attuale borgata Canossi e, anche in questo caso sovrapponendosi all’attuale sentiero collinare ben noto agli escursionisti ed ai cacciatori, si inerpicava fino al colle di Chiappa a ben 400 metri di altezza e di là scendeva in prossimità dell’abitato nell’omonima borgata, dove è presente la famosa pietra miliare riportante il nome dell’ imperatore Cesare Augusto e la distanza di 533 miglia da Roma.
Dell’antica via Julia Augusta si apprezzano ancora alcuni tratti discretamente conservati sotto Colla Micheri ed anche sotto Castello in prossimità dell’antica fontana mediovale, anche se gli acciottolati risalgono sicuramente ad epoche successive.
Purtroppo una notevole parte di essa venne cancellata in seguito alla costruzione dell’Autostrada dei Fiori negli anni ’60.
Queste importanti vie consolari rappresentarono la spina dorsale della viabilità costiera per almeno due millenni, più o meno fino a quando Napoleone Bonaparte, annesse anche la Liguria al proprio Impero, e perseguendo il suo programma di modernizzazione, che comprendeva anche l’ammodernamento della viabilità dell’impero, concepì la realizzazione di una carrozzabile “bord de mer”, la cosiddetta Panoramica Costiera.
Purtroppo la costruzione della strada, iniziata già nel 1812 durante il governo francese, venne sospesa nel 1815 a causa della caduta dell’imperatore e completata solamente nel 1832 sotto il regno sabaudo di Carlo Felice.
Insomma, fino a tutto il terzo decennio del XIX secolo in buona parte della Liguria, e Andora non faceva eccezione, si viaggiava ancora sulle strade consolari romane.
A testimonianza di ciò, fino a pochi decenni orsono, nei grandi anziani andoresi era ancora viva la memoria storica relativa al passaggio delle truppe napoleoniche attraverso la valle di Andora, truppe che secondo detta tradizione orale, scesero dal colle di Chiappa e risalirono verso Colla Micheri dopo aver attraversato il fiume Merula transitando sul Ponte Romano.
Sulla facciata della chiesa di San Sebastiano, in località Colla Micheri, c’è ancora una lapide che ricorda che, il 14 febbraio 1814, il Papa Pio VII di ritorno a Roma, dalla prigionia di Versailles, si fermò proprio lì con il suo seguito per una sosta rigenerante, sedendosi su una sedia che è tuttora conservata dentro la cappella stessa.
E’ insolito che il Papa non avesse viaggiato via mare, poiché i trasporti pesanti allora avvenivano sempre per barca o per vascello e le persone agiate molte volte preferivano non faticare a piedi oppure rischiare una inutile e pericolosa caduta dal mulo o dal cavallo. Che il Papa patisse il mal di mare? Ironia a parte, molto probabilmente l’intenzione era di mostrarsi alla gente che incontrava lungo il cammino verso Roma e far loro notare che era finalmente libero, e soprattutto rientrato in possesso di tutti i suoi poteri spirituali e temporali. Per la pura cronaca, la sera stessa del giorno in cui transitò sul suolo andorese, dopo la sosta alla cappella di Colla Micheri, il papa pernottò a Laigueglia in Palazzo Semeria.
Pertanto, Andora, alla pari di altri centri della Riviera, si apre ai collegamenti veloci solo a XIX secolo inoltrato ed a tal proposito un enorme salto qualitativo fu rappresentato dalla costruzione della “Ferrovia delle Riviere Liguri”.
La linea ferroviaria costiera, iniziata nel marzo del 1857 e terminata nel 1872, quindi circa un decennio dopo l’unità d’Italia, rientrava nell’ambizioso progetto di sistema ferroviario che Camillo Benso Conte di Cavour considerava un fattore determinante per accelerare il processo di unificazione italiana e come ben sappiamo la via ferrata sabauda ha costituito l’ ossatura del sistema ferroviario ligure fino a pochi anni fa, quando finalmente la maggior parte di essa è stata finalmente raddoppiata, ma come ben sappiamo, non ancora completamente……
Sopra e sotto: due vedute della Stazione agli inizi del Novecento
Sicuramente la montuosità della Liguria e la sua costa alta e dirupata ha condizionato per millenni i collegamenti sia interni che costieri, ma ad Andora anche la costa bassa della piana ha costituito un problema, poiché nella zona immediatamente retrostante la battigia per centinaia di anni sono state presenti le paludi.
Non è stato così da sempre; il Merula fino al termine del XIV secolo era stato navigabile dal mare fino al Ponte Romano, ma ad un certo punto per cause tuttora ignote (alluvioni, terremoti, violente mareggiate?) allagò i terreni circostanti rendendoli paludosi e malsani favorendo in tal modo l’insorgenza della malaria, che condizionò non poco la vita della gente che abitava nella bassa valle.
Molto esemplificative a tal proposito sono le relazioni degli amministratori e studiosi che nel XIX secolo parlano delle malsane paludi che affliggono Andora (Chabrol de Volvic, Casalis, Bertolotti, ect.).
Solo dopo la loro bonifica, avvenuta nella seconda metà del XIX secolo, la pianura prospiciente al mare si poté sfruttare per usi agricoli ed allora si poté costruirvi le prime abitazioni.
E’ proprio per questo motivo che Andora non possiede un centro storico sul mare e perché nemmeno fu borgo di pescatori.
Le uniche costruzioni di rilievo che furono erette sul mare furono la torre di avvistamento saracena, risalente al millecinquecento, tutt’ora esistente e, a destra del Merula, il maestoso Palazzo Tagliaferro che risale al milleseicento.
Zona verso la foce del Merula ad inizio Novecento
La battigia rimase allo stato naturale fino a pochi decenni orsono tanto che ancora nelle fotografie dell’immediato dopoguerra si può notare che era caratterizzata da un litorale sassoso ed il mare presentava un fondale rapidamente digradante.
Questa caratteristica costiera è facilmente constatabile osservando soprattutto le foto riguardanti le colonie marine che furono edificate in riva al mare per i figli delle famiglie più disagiate. Infatti negli anni trenta la zona centrale, quella prospiciente le attuali via Roma, via Doria e via Caboto fu occupata dalle costruzioni della colonia marina di Asti e Cuneo.
Alla destra del Merula invece si insediò la colonia di Milano.
La presenza di dette colonie marine, pochi decenni più tardi, si sarebbe rivelata quanto mai salvifica per il mantenimento dell’integrità ambientale della zona immediatamente a ridosso della battigia, in quanto avrebbe permesso di mantenerla immune dalle mire speculative edilizie che si sarebbero scatenate di lì a poco e che non pochi danni hanno provocato in molti centri della Liguria.
E’ proprio grazie alla presenza a suo tempo di queste colonie che Andora può oggi vantarsi di possedere degli insoliti, per la Liguria turistica, prati in riva al mare, nonostante la speculazione edilizia ancor negli ultimissimi anni, con un ultimo colpo di coda, sia comunque riuscita a cancellarne una parte.
Litorale ad inizio Novecento
Il cambiamento arriverà solamente negli anni sessanta quando, complice la nascente industria balneare, inizia la costruzione di numerosi moli realizzati con macigni e pietroni che sono il materiale di risulta dalla escavazione delle gallerie della costruenda Autostrada dei Fiori.
Essi hanno il fine di favorire l’insabbiamento del litorale.
I risultati sono confortanti già da subito, ma la svolta determinante si ha con la realizzazione del porto turistico, la cui diga di terra, penetrando in mare per centinaia di metri, non permetterà più alle correnti di levante di erodere sedimenti sabbiosi dal litorale.
Gli andoresi avanti negli ”anta” ricordano bene quando, prima della costruzione del porto, la via Aurelia, nel tratto di rettilineo compreso tra il Molo Heyerdahl ed il porto, al posto della Passeggiata Quaglia e delle palme che oggi la adornano, presentava un muro di contenimento della massicciata alto almeno tre metri che veniva normalmente bagnato dal mare, ma che, durante le violente mareggiate invernali, veniva sistematicamente superato dai marosi che invadevano la sede stradale spruzzando e talvolta letteralmente lavando i mezzi che transitavano in quel momento.
Sopra: panorama del litorale costiero nella prima metà del Novecento
Sopra e sotto: resti interrati del muraglione della vecchia Aurelia in prossimità delllo sbocco della Dia (incrocio con via Marco Polo)
Foto per gentile concessione Alessandro Vitelli - Soc. Rivieracqua
Con la costruzione del porto ha così avuto inizio una fase di progressivo e pressoché inarrestabile insabbiamento della baia, fase che è tuttora attiva.
Il fondale non è più ripido come un tempo, ma digrada molto dolcemente e oggigiorno non sarebbe più possibile accogliere dei cantieri navali come quelli che erano presenti a lato della foce del Merula tra il 1920 e il 1949, che potevano varare la maggior parte dei battelli ivi realizzati, cioè quelli di più piccole dimensioni, liberamente senza dover creare canali dragati.
L’arenile andorese negli ultimi cinquant’anni ha pressoché decuplicato la sua profondità, soprattutto nella sua parte a levante del Merula, ma quel che è maggiormente positivo è il fatto che l’arenile, da pietroso che era, oggi è caratterizzato da un insabbiamento continuo tutto l’anno, il che rende le spiagge di Andora tra le più gradevoli ed accoglienti di tutta la Liguria.
L’ultimo e definitivo atto che ha rotto la cronica difficoltà di collegamento di Andora e della Riviera con i territori adiacenti è stata la realizzazione dell’Autostrada dei Fiori.
Dopo circa un decennio di lavori notevoli, durati tutti gli anni sessanta, rappresentati per oltre il novanta per cento del percorso da gallerie, ponti, sbancamenti e terrapieni, nel 1970 anche l’autostrada apre al traffico. Sempre gli andoresi avanti negli “anta” si ricordano bene che, finchè non fu terminato il viadotto sul Merula, per diversi mesi le auto e gli autocarri che transitavano sull’Autofiori attraversavano la valle di Andora uscendo dalla galleria di Metta, scendevano in valle utilizzando il vecchio e stretto ponte “cunettùn” realizzato in epoca fascista, attraversavano il centro di Molino Nuovo ( ! ), indi arrivavano fino a San Giovanni dove risalivano la collina passando a lato della borgata Confredi per poi reimmettersi sull’Autofiori.
Ricordare oggi una simile situazione fa sorridere e tremare al tempo stesso se solo osiamo pensare a ciò che accadrebbe se si dovesse ripresentare una simile situazione.
A distanza di cinquant’anni oramai ne servirebbe un’altra.
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CONCLUSIONE
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Durante questo breve volo pindarico attraverso i secoli e soprattutto trascorso nell’analisi del paesaggio della Val Merula degli ultimi duecento anni, abbiamo constatato che la nostra valle può essere grossolanamente divisa in due parti: da San Bartolomeo in su e da San Pietro in giù.
La parte superiore ha certamente ed inevitabilmente subito dei cambiamenti, ma dovuti soprattutto all’inevitabile evolversi dei tempi, però non è stata mutata più di tanto, mentre la parte più a mare, ed in particolare la fascia costiera, purtroppo è stata stravolta completamente.
La foresta di ulivi non esiste più da cent’anni ed al suo posto sono stati edificati caseggiati dal più che dubbio stile architettonico, purtroppo anche gli ultimissimi in ordine di tempo. Anche i rigogliosi frutteti sono ormai un pallido ricordo e, laddove l’agricoltura è sopravvissuta, le coltivazioni in serra contendono il primato a quelle all’aria aperta.
Quella che era la “Valle degli Oleandri” ormai è diventata la valle dei condomini e dei supermercati e qualcuno può affermare a buon diritto che il progresso non si arresta e ciò è giusto, ma solo parzialmente. Perché parzialmente, semplicemente perché se è vero che il progresso è inevitabile che non si possa fermare, però è altrettanto vero che si può gestire, modulare, governare.
Ecco forse ciò che è mancato nella gestione del nostro territorio sono la preparazione professionale, la coscienza e la sensibilità ambientale e l’onestà intellettuale nel gestire al meglio ciò che Madre Natura ci ha così generosamente donato e non solo ed unicamente in mera funzione speculativa.
Oggi noi, per fortuna, non abbiamo più le perniciosissime paludi che così tanti problemi hanno creato ai nostri avi e sotto il profilo sanitario corporale siamo molto più tutelati e tranquilli, ma siamo altrettanto certi che il nostro benessere spirituale sia altrettanto migliorato rispetto a quello dei nostri bisnonni? La visione di questi invadentissimi casermoni, che hanno preso il loro posto, crea un sentimento di maggior benessere nei nostri animi rispetto a quelle che potrebbero essere delle più modeste villette di due piani al massimo e ci soddisfa dal punto di vista della socializzazione coi nostri vicini di casa? Il vivere barricati col terrore di essere derubati da chiunque e in qualsiasi momento, anche dagli stessi condomini, è meglio o peggio di quando in paese si conoscevano tutti e c’era una vera sincera mutua solidarietà? Riusciamo ancora a cogliere con gioia come un tempo le piccole cose che ci attestano l’alternanza delle stagioni e la loro ricchezza naturalistica?
Era meglio quando bastava uscire di casa pochi metri per cogliere un frutto dall’albero o una verdura nell’orto oppure è meglio oggi che dobbiamo andare a comprare prodotti ultratrattati al supermercato? Ne dubito fortemente, però possiamo fare ancora molto per difendere ciò che rimane dell’ambiente e di quello spirito.
La pianura ormai purtroppo è persa, ma per fortuna ci rimangono ancora le colline come questa dove ci troviamo ora. Per fortuna esistono ancora e si sono conservati quasi intatti dei piccoli gioielli come Rollo dove ci troviamo ora, più che un borgo arroccato sulla collina, addirittura un balcone a sbalzo sul mare dove, al netto del traffico automobilistico, il tempo sembra quasi essersi fermato e nelle fredde e terse giornate invernali sembra quasi di poter toccare con mano la Corsica dalla chioma candida di neve e si riconoscono le montagne una per una.
Ecco, noi dobbiamo ripartire da qui, da questi borghi come Rollo, e ce ne sono ancora altri per fortuna, per creare uno sviluppo più sostenibile e duraturo nel tempo. D’altronde le Cinque Terre insegnano; erano e sembravano derelitte e dimenticate da tutti perché il progresso, a causa della loro difficile raggiungibilità, non poteva imporsi facilmente: è stata la loro salvezza e fortuna! Oggi conoscono un movimento turistico internazionale senza pari e si pensa addirittura di porre dei limiti all’accesso. Dobbiamo ricordarci che la Liguria è sempre stata mare sì, ma anche montagna, dobbiamo ricominciare a voltarci indietro sia temporalmente che geograficamente ed iniziare a rivalutare e guardare con occhi nuovi la nostra antica anima contadina, portando considerazione e rispetto per il lavoro silente e certosino dei nostri avi, in primis i muretti a secco che tanta fatica e sacrificio costarono ai loro realizzatori: anche noi in Liguria abbiamo tante piccole Muraglie Cinesi e sono le migliaia di chilometri di muri a secco realizzati dai nostri antenati i “maxèi”, coi quali riuscirono a trasformare le montagne in tante piccole pianure. Dobbiamo amare e percepire come un nido le abitazioni in pietra a vista che sono la nostra vera ed unica caratteristica architettonica, le cui soglie sono adornate coi tipici acciottolati, i “rissò”. Dobbiamo difendere con le unghie e coi denti dagli indiscriminati attacchi del fine settimana le mulattiere lastricate, che schiere di motocrossisti fracassoni e prepotenti, il cui unico divertimento è far baccano e consumare inutilmente serbatoi di benzina, si divertono a massacrare coi loro insensati raid fini a sé stessi. Questo non è sport né tantomeno turismo, è semplicemente vandalismo. Tutto il paesaggio ligure è un immenso quadro naturale che merita solo rispetto, pertanto cerchiamo di non sfregiarlo ulteriormente. Tutto ciò fa parte della nostra storia e tradizione, in altre parole è cultura con la C maiuscola, perché la cultura non è solo una scultura, una bella poesia o un quadro d’autore, cultura è anche rispetto e difesa del nostro paesaggio e tramandazione nel tempo delle nostre tradizioni. Solo se sapremo veramente amarle e rivalutarle adeguatamente avremo la possibilità di avere un futuro, anche economicamente parlando, sennò saremo inevitabilmente destinati ad impoverirci sempre più sia finanziariamente che spiritualmente, con la perdita ultima della nostra identità ed anima più vera.
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